5. L'amor fati löwithiano

Ad ogni modo, Löwith ha lasciato intendere che, qualunque sia l’esito della modernità occidentale, in balia del dilemma tra «progresso e catastrofe», chi sa aprirsi alla verità naturale delle cose (a ciò che permane) non può essere scalfito da nulla, a costui appartiene «l’equanimità dell’atarassia» (ataraxia)[1]. Colui il quale, infatti, nonostante la “distretta” dell’epoca e il suo possibile esito catastrofico, è in grado di comprendere l’inevitabilità del fato (fatum) che tutto regge, che è un altro nome per dire natura, non può esser soggetto ad alcun turbamento dell’animo, perché disposto ad accettare consapevolmente l’ineludibile andamento delle cose (amor fati). Se un nuovo accordo collettivo con la natura (universale e personale), nell’epoca del progresso incontrollato, appare a Löwith quanto mai difficile, è pur sempre possibile un accordo individuale e solitario con essa. La vera salvezza, infatti, che non è, come per il cristianesimo e le sue secolarizzazioni, redenzione dal mondo in direzione ultraterrena (il regno dei cieli) o terrena (il paradiso in terra), consiste in quella tranquillitas animi, in quella serenità che la contemplazione della fatalità del mondo riesce a donare, innalzando ad una beatitudine che è tanto difficile, quanto rara e, tuttavia, possibile per chi ne è all’altezza.

 

Non è un caso, allora, se Gadamer abbia scritto, a proposito del «fatalismo» di Löwith, che il suo ethos era improntato innanzi tutto a «un’accettazione, priva di illusioni, delle cose così come sono», tanto che, in conformità con l’anima latina, non poteva non essere incline all’«abbandono all’istante», a «trovare naturale ciò che è naturale» e all’«accettazione dell’inevitabile», per cui «Nietzsche e l’amor fati furono l’espressione più naturale del suo modo di sentire e pensare il mondo»[2]. L’«accettazione dell’inevitabile», di cui parla Gadamer non è altro, poi, che la proposizione fondamentale di ogni etica del limite, dove il limite si identifica con quella finitezzache ci caratterizza in quanto essere naturali, ovvero soggetti al dolore e alla morte.

 

Löwith, infatti, in una lettera del 1935 indirizzata a Leo Strauss, ha scritto:

 

Dato però che io non voglio nulla di utopico, di radicale e di estremo, e d’altra parte non voglio neppure accontentarmi di una qualche “mediocrità”, mi resta soltanto come criterio critico-positivo la distruzione sistematica di tutti quegli estremismi, in un ritorno all’ideale – originariamente altrettanto antico – di modo e misura. Da qui risulta anche un accordo ragionevole e “naturale” di morale e metafisica – di volontà e fato – in generale di uomo e mondo[3].

 

Quanto detto non deve, però, far pensare che l’assenza di speranza abbia condotto Löwith alla disperazione, perché il nostro autore, in linea con Paul Valéry, è stato dell’idea che possa disperare soltanto chi ha sperato in maniera smisurata: «chi vive senza speranza (expérance), però, non può neppure disperare (désespérer)». Chi è, infatti, disperato? Chi ha sperato o cose impossibili o cose di fatto possibili ma per lui ormai impossibili e che, resosi conto di questa impossibilità, continua, ciò nonostante, a desiderarle.

 

A tal proposito, sono illuminanti le parole di Paul Valéry riportate da Löwith:

 

Sono stato spesso definito un disperato. Non so perché. Questo termine ha una risonanza romantica e mistica che non mi si addice. Esso va bene per Pascal. Per essere disperati, bisogna aver sperato ed aver sperato, negli stessi termini di una pena smisurata, l’impossibile. Quanto a me, ho sempre sperato soltanto beni ben determinati, cose non solo reali, ma semplicissime, quali quelle che toccano a molta gente per caso o a causa della loro attività[4].

 

Di qui la centralità dell’accettazione di sé nell’orizzonte di una vita buona (eu zen):  

 

Si deve accettare la propria esistenza puramente come un fatto, per poter vivere come essere umano in generale. E ci si deve accettare senza sconti per ciò che si è, «tel quel». Verso la fine della sua vita Valéry rammenta i propri esordi, allorché si rafforzò nella sua solitudine nella lotta contro se stesso, «c.à.d., l’art de s’accepter tel quel» (29, 159). Ma cosa significa accettarsi così come si è? Lo si ricava indirettamente dal rimprovero che Valéry muove a Pascal di non aver voluto accettarsi come ciò che era, bensì di aver voluto essere un altro. Pochissimi uomini si accettano così come sono. Il sentimento che ha giocato il ruolo più importante è quello di essere un altro da ciò che si è. L’uomo non si accetta. La mancanza di fede in ciò che è precede e fonda la fede in ciò che non esiste[5].

 

E' stata, insomma, la sfiducia dell’uomo in se stesso e nel mondo ad aver fondato la fiducia in ciò che non esiste, che, in un primo momento, con il cristianesimo, si è rivolta ad un paradiso ultraterreno e, poi, con la secolarizzazione moderna, ha voluto realizzare in terra il paradiso stesso, pervenendo ad esisti catastrofici, i quali, dopo la caduta delle cosiddette ideologie novecentesche, continuano, tuttora, sotto le forme del progresso incontrollato e della crescita infinita. A tutto ciò, come si diceva, Löwith ha contrapposto un’etica del limite, basata sul riconoscimento delle effettive possibilità dell’uomo e del mondo naturale, monito, più che mai attuale, di fronte alla tracotanza umana e al delirio dell’immaginazione della modernità.     

 

 

 

 

Note bibliografiche


[1] K. Löwith, Scepsi e fede, cit., p. 10.

[2] H. G. Gadamer, Karl Löwith, in Philosophische Lehrjahre. Eine Rükschau, Frankfurt a. M., 1977, pp. 231-9; tr. it. Karl Löwith, in Maestri e compagni del pensiero. Uno sguardo retrospettivo, Queriniana, Brescia 1980, pp. 189-195.

[3] K. Löwith – L. Strauss, Dialogo sulla modernità, Introduzione di R. Esposito, Donzelli, Roma 1994, p. 16.

[4] P. Valéry, Oeuvres, cit., (25, 814).

[5] K. Löwith, Paul Valéry. Gründzuge seines philosophischen Denkens (1970); tr. it.  Paul Valéry, a cura e con Introduzione di G. Carchia, Celuc, Milano 1987, pp. 119-20.

Il nome di Karl Löwith è spesso associato ai suoi lavori di storia della filosofia e alla sua attività di "scepsi storiografica"  (segue)

Sezioni del sito

O. Franceschelli - Intervista su Karl Löwith

Karl Löwith - Treccani.it

Karl Löwith - New School Philosophy

Karl Löwith, Storia e natura. Scritti su idealismo e sinistra hegeliana, a cura di Flavio Orecchio, Castelvecchi, Roma, 2023.

Karl Löwith, Il cosmo e le sfide della storia, a cura di O. Franceschelli, Donzelli Editore, Roma, 2023.

S. Griffioen, Contesting modernity in the German secularization debat: Karl Löwith, Hans Blumenberg and Carl Schmitt in polemical contexts, Brill, Leiden, 2022.

Donaggio E., Karl Löwith: eine philosophische Biographie, tr. ted. di A. Staude con la collaborazione di M. Rottman, J.B. Metzler, Berlin, 2021.

Seconda edizione

Liebsch B., Verzeitlichte Welt: Zehn Studien zur Aktualität der Philosophie Karl Löwiths, J.B. Metzler, Berlin 2020.

Nuova edizione

Löwith K., Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma, 2018.

Karl Löwith, Sul senso della storia, a cura di M. Bruni, Mimesis, 2017.

Heidegger M., Löwith K., Carteggio 1919-1973: Martin Heidegger e Karl Löwith, edizione critica di A. Denker, a cura di G. Tidona, ETS, Pisa, 2017.

Fazio G., Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Mimesis, Milano-Udine, 2015.

A. Tagliapietra, M. Bruni (a cura di), Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, traduzione di M. Bruni, Mimesis, 2016.

Premio Nazionale Filosofia Frascati - 2016

Società Natura Storia. Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di A. Civello, Edizioni ETS, 2016.

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